Sulle nuove norme sul lavoro, di Pietro Ichino
Sulle nuove norme sul lavoro, di Pietro Ichino

La nuova norma sulla soluzione arbitrale delle controversie probabilmente non produrra’ danni ai lavoratori, anche perche’ delinea una procedura troppo complicata e costosa …

E’ ora che il sistema delle relazioni industriali rivendichi dal legislatore maggiore sobrieta’, chiarezza e self restraint, perche’ sia restituita alla contrattazione collettiva la funzione perduta di fonte principale di regolazione dei rapporti di lavoro.

Articolo pubblicato sul Corriere della sera il 7 marzo 2010

Caro Direttore, con la legge in materia di lavoro varata dal Senato mercoledì scorso rischia di ripetersi quello che è accaduto sette anni fa con la legge Biagi: il governo la presenta come la liberazione da vecchi vincoli; l’opposizione e la Cgil convalidano questa immagine della legge denunciandola come un grave “smantellamento delle protezioni”; tutti si convincono che effettivamente – nel bene o nel male – siamo di fronte a una liberalizzazione del mercato del lavoro; solo dopo qualche anno, alla prova dei fatti, si scopre che questa liberalizzazione non c’è stata affatto.

            Nel caso della legge Biagi, i fatti si sono incaricati di dimostrare che essa ha, semmai, regolato in modo assai più severo rispetto a prima le due forme principali di lavoro “atipico”: le collaborazioni autonome continuative e i rapporti di formazione e lavoro. Questa nuova legge è congegnata molto peggio della legge Biagi; saranno comunque ancora i fatti a mostrare che neppure essa produrrà una effettiva riduzione delle protezioni dei lavoratori, se non in situazioni molto marginali.

            La norma “incriminata” è il nono comma dell’articolo 31, dove si attribuisce ai contratti collettivi il compito di regolare la soluzione arbitrale delle controversie, ma si prevede anche che, decorso un anno e mezzo senza intervento della contrattazione collettiva, sia comunque consentito inserire nel contratto individuale di lavoro il vincolo per cui ogni controversia dovrà essere risolta da un collegio arbitrale. Tutto il veleno della questione sta qui: la Cgil e un folto gruppo di giuslavoristi denunciano il rischio che in questo modo, là dove la materia non sarà stata opportunamente regolata da un contratto collettivo, l’imprenditore possa, con l’imposizione dell’arbitrato nel contratto individuale, assoggettare ogni futura controversia a un “giudice privato” disposto sostanzialmente a disapplicare le protezioni inderogabili del lavoratore. In linea teorica, la denuncia è fondata. Sul piano pratico, gli spazi non coperti dal contratto collettivo, nei quali questa elusione potrà essere tentata, saranno molto marginali. Ma, soprattutto, chiunque si avventuri a leggere le dieci astrusissime pagine occupate da questo articolo 31 si convincerà subito che il meccanismo è troppo complicato e disseminato di trappole procedurali per poter avere una apprezzabile diffusione. Potrà forse essere utilizzato da qualche piccolo imprenditore spregiudicato, assistito da qualche altrettanto spregiudicato faccendiere; ma era e resterà infinitamente più semplice e più sicuro, per eludere il diritto del lavoro, far “aprire la partita Iva” al lavoratore e fingere un rapporto di collaborazione autonoma. Come è la “regola” oggi, quando si vuole un rapporto di lavoro senza regole.

            Il vero rischio che si corre, con norme monumentalmente farraginose e disordinate come questa, è soprattutto che esse restino irrilevanti per la loro totale incapacità di farsi leggere e capire dai milioni di persone da cui dovrebbero essere applicate. Viceversa, ho già avuto occasione di osservare (Corriere, 29 novembre 2009) come un’altra norma in questa legge presenti il rischio ben più concreto di dilatare a dismisura lo spazio del controllo giudiziale sulle scelte imprenditoriali: parlo del terzo comma dell’articolo 30, che consente al giudice di ergersi a interprete unico dell’“interesse oggettivo dell’impresa”. Questa è una norma che rischia di espropriare delle loro prerogative non soltanto gli imprenditori, ma anche l’intero sistema delle relazioni industriali.

            Ancora più grave è il rischio che l’introduzione dell’arbitrato nelle controversie riguardanti l’impiego pubblico – altra novità di questa legge – spiani  la strada alle peggiori malversazioni in materia di immissioni in ruolo e promozioni nelle amministrazioni statali e locali: basterà che il dirigente dell’ufficio e il suo protetto fingano la lite e scelgano insieme l’arbitro compiacente.

            Ma la cosa più grave di tutte, in questa legge, è la sua pessima qualità tecnica. Alle già poco leggibili duemila pagine occupate dalle leggi in vigore in materia di lavoro, se ne aggiunge ora un’altra cinquantina, di ancora più illeggibili, contenenti in un disordine impressionante norme sulle materie più disparate, che vanno dai lavori usuranti ai gruppi sportivi delle Forze armate, dai concorsi universitari alle aspettative per i Vigili del Fuoco. È nel bel mezzo di questo caos, in un repulsivo articolo 31 irto di ben quaranta commi, che si è pensato bene di collocare – niente meno – una riforma del codice di procedura civile mirata a rilanciare l’arbitrato nelle controversie di lavoro.

            La prepotenza del legislatore non sta soltanto nella pretesa di imporre al sistema delle relazioni industriali questa o quella soluzione dettata dall’esterno, ma anche nella mancanza di sobrietà, di chiarezza, di comprensibilità delle norme emanate. Anche da questo si misura il grado di libertà e di civiltà di una nazione.

www.pietroichino.it

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