Sacconi: non si sostiene così la contrattazione aziendale
Sacconi: non si sostiene così la contrattazione aziendale

Il DL approvato a metà agosto conteneva una norma che ha suscitato acute polemiche e che è stata depotenziata dalle parti sociali firmatarie dell’ultimo accordo interconfederale. Segue …

Presentata quale provvedimento a sostegno della crescita delle imprese, essa rischiava invece di produrre nuovi scontri sociali e di vanificare lo sforzo unitario compiuto di recente dalle grandi confederazioni sindacali.

Articolo di Franco Scarpelli per www.nelmerito.com

L’art. 8 del decreto è scritto molto male e come spesso avviene solleva numerosi dubbi interpretativi (salvo poi prendersela coi giudici, quando vengono chiamati a supplire alle carenze del legislatore…). Le notizie di questi giorni sulle modifiche approvate in corso di esame al Senato ne rendono più evidenti le finalità: in questa sede lasciamo da parte l’analisi tecnica e fermiamoci sul senso e le linee di fondo della questione.

Il Ministro del Lavoro afferma che la disposizione ha lo scopo di valorizzare e sostenere la contrattazione territoriale e aziendale – oggi ricondotte, con pudico esercizio di maquillage, al concetto di “contrattazione di prossimità” – e che si pone in linea con l’accordo tra le parti sociali, in materia di contrattazione e rappresentanza, dello scorso 28 giugno. Entrambe le affermazioni sono molto discutibili.

La norma è composta di due parti. Con la prima (due commi nel d.l., ora pare con l’aggiunta di un comma 2-bis) si vorrebbe consentire alla contrattazione aziendale di operare su alcune materie dell’organizzazione e della disciplina dei rapporti di lavoro, liberandola dai vincoli della legge e dei contratti nazionali. Le materie individuate sono quanto mai eterogenee e messe lì un po’ alla rinfusa (alcune sono specifiche, come quella dell’introduzione in azienda di nuove tecnologie, altre assai ampie, come quella delle modalità di assunzione e disciplina dei rapporti di lavoro). Le intese “autorizzate” sono quelle finalizzate ad alcuni obiettivi (aumento dell’occupazione, gestione di crisi aziendali ecc.) e devono essere sottoscritte da associazioni rappresentative o dalle rappresentanze sindacali aziendali.

Con il terzo comma si vuole intervenire a sanare ex post i problemi di efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali stipulati prima dell’accordo del 28 giugno e sottoposti a referendum tra i lavoratori … cioè gli accordi Fiat, cui il Governo ha voluto dare un imprimatur nonostante il fatto (o proprio perché) l’accordo del 28 giugno aveva evitato di occuparsene.
E’ difficile in poco spazio illustrare i tanti motivi che rendono sbagliata una simile disposizione. Chi scrive (tanto per evitare la scontata litania contro i giuslavoristi che difendono il vecchio…) non è affatto contrario né a sostenere la contrattazione aziendale né a interventi, anche coraggiosi, diretti a consentire una maggiore flessibilità nei rapporto tra i livelli della contrattazione (in questo senso peraltro va anche l’accordo unitario di giugno) ed anche tra contratto e legge (terreno sul quale il diritto del lavoro si è indirizzato da oltre due decenni). Quindi non se ne faccia una battaglia generica e per slogan, perché il problema come al solito è quello del come, dei limiti e delle tecniche, delle procedure e garanzie, degli equilibri tra obiettivi produttivi e diritti individuali; ed è quello assai complesso, e discusso da molti anni, delle regole di democrazia sindacale.

Si noti che il Ministro Sacconi è lo stesso che per anni ha ripetuto che questa maggioranza non intendeva legiferare sulle questioni della rappresentanza e delle relazioni sindacali. Se ora ha cambiato idea – come dimostra l’art. 8, che piomba con fragore su quel terreno – avrebbe dovuto e potuto presentare al Parlamento (e al dibattito tra gli operatori e studiosi del settore) una proposta organica, preferibilmente discussa anche con quelle parti sociali che hanno appena compiuto un innovativo sforzo in tal senso. Invece ci troviamo una norma improvvisata e dai contenuti incerti e sbagliati.

Vediamone solo le questioni più importanti.

La prima riguarda la frontiera dei diritti. La tecnica della flessibilizzazione e delle deroghe alla disciplina di legge, come dicevo, è conosciuta da tempo al nostro ordinamento, anche per la contrattazione aziendale (vi sono esempi importanti proprio nella disciplina delle crisi aziendali). Essa si sviluppa, tuttavia, individuando i casi in cui la deroga è possibile, le disposizioni modificabili, le procedure per giungervi. Il decreto in esame, come si è detto, sembra invece affidare al contratto aziendale una delega “in bianco” su intere materie, tra le quali compaiono anche discipline che sono attuazione di principi costituzionali od obblighi comunitari.
Si è discusso in questi giorni del tema del licenziamento, ma pensiamo anche alla materia delicatissima dell’orario di lavoro e del part-time sulla quale si gioca, per tante lavoratrici, il problema della conciliazione tra lavoro e impegni di cura; pensiamo a quella delle tutele dei lavoratori precari nei confronti dei quali, come è noto, la rappresentatività dei sindacati è per definizione assai debole.
Il punto è che in tutte queste materie sono in gioco non solo gli interessi delle imprese e (della maggioranza) dei lavoratori, ma anche gli interessi (diritti) di gruppi o minoranze di lavoratori sotto-protetti, nonché spesso interessi generali superiori a quelli delle parti. Non è dunque ammissibile una delega in bianco alla contrattazione per una intera materia, nella quale deve essere il legislatore a fissare diritti indisponibili (e non solo quelli a protezione costituzionale o europea) e le questioni per le quali invece può operare la contrattazione.
E’ ammissibile, ad esempio, che un contratto aziendale possa intervenire liberamente sugli orari di chi abbia impegni di assistenza di familiari (e dunque sul diritto alla certezza della distribuzione dell’orario di lavoro delle lavoratrici part-time?)

Come può ammettersi che uno o più sindacati (per quanto rappresentativi) dispongano del diritto alla stabilità del rapporto di lavoro di soggetti che devono ancora essere assunti (come i co.co.pro. o i lavoratori a termine ancora non impiegati dall’impresa dove si contratta)?

E infine: come può ammettersi che la frontiera dei diritti individuali su materie così ampie possa variare da impresa a impresa, senza ledere il principio di eguaglianza?

La seconda questione riguarda il rapporto tra legge e sistema di relazioni sindacali, sul quale il decreto interviene a gamba tesa. Sacconi sostiene di essersi posto in linea con gli orientamenti delle parti sociali, ma ha fatto il contrario.

Il dibattito in corso da anni sulla valorizzazione della contrattazione decentrata, non privo di acuti contrasti, ha prodotto con l’accordo dello scorso giugno un approdo importante (che il Ministro dovrebbe trovare significativo, se non altro, per la sofferta apertura da parte della Cgil proprio su questo tema). Lì la contrattazione aziendale in deroga al contratto nazionale è prevista, ma “nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro”. Che senso ha, dunque, un decreto-legge che invece voglia introdurre una libertà assoluta di deroga? (se non proprio quello, inconfessabile, di voler far saltare per propri obiettivi politici l’inaspettata e precaria intesa unitaria appena ritrovata dalle principali confederazioni?).

La terza questione riguarda il tema della verifica di rappresentanza dei soggetti del contratto, sul quale di nuovo le parti sociali hanno prodotto, con l’accordo di giugno, un primo importante schema di auto-regolazione, dal quale il decreto si discosta.
La dilettantistica formulazione dell’art. 8 contiene qui alcuni elementi molto ambigui (come il riferimento alla rappresentatività in ambito territoriale), e soprattutto non risolve il problema dell’assenza di una regolazione legislativa delle questioni della rappresentanza e dell’efficacia dei contratti: questioni affrontate dall’accordo di giugno che tuttavia non ha validità generale e rispetto al quale, anzi, la forzatura del Governo può costituire un elemento di scardinamento.

Infine, non vi è chi non veda l’enormità e la scorrettezza di un intervento del legislatore, ex post, sui problemi giuridici degli accordi Fiat. Senza contare che allo scopo di fare un favore alla singola impresa (ammesso che lo scopo sia raggiunto, che è cosa tutta da dimostrare) il decreto introduce una disposizione che non solo è del tutto disorganica, ma che potrebbe sollevare una gran quantità di problemi e contenzioso per altre imprese.
L’ossessione che sembra caratterizzare la politica di questa maggioranza, in tema di relazioni sindacali, le impedisce di imboccare strade di reale sostegno allo sviluppo di una contrattazione aziendale di qualità, in un contesto di sistema coeso: ciò che esigerebbe in primo luogo di favorire la crescita di dimensione delle imprese (non dimentichiamo infatti che solo in una minoranza di aziende si fa contrattazione) e semmai, in secondo luogo, di avviare un confronto con le parti sociali al fine di individuare soluzioni legislative in grado di dare più forza ed efficacia alle regole stabilite nell’accordo dello scorso giugno.

Questo dunque andrebbe fatto, e il primo passo dovrebbe essere la cancellazione dell’art. 8 in sede di conversione del decreto 183.

www.nelmerito.com

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