"Italiani clandestini e contribuenti stranieri"
"Italiani clandestini e contribuenti stranieri"

Stranieri e conti pubblici: una ricerca Isae conferma che il rapporto dare/avere è ancora molto sbilanciato a sfavore degli immigrati.

1. Qualche tempo fa, una mia amica, restauratrice, mi raccontava di un collega di simpatie leghiste che, durante il lavoro, si lamentava di come gli immigrati rubassero il lavoro a noi italiani, di come a loro andassero tutti i servizi pubblici finanziati con le sue tasse, insomma, il solito campionario di luoghi comuni. Il bello è che questo restauratore lavora in completa clandestinità: il suo laboratorio non è sulla strada e lui non esiste né per l’Inps, né per l’Inail, né, tantomeno, per il fisco. La mia amica, d’altra parte, che tasse e contributi li pagava, dovette, poco dopo la conversazione, chiudere l’attività perché non era in grado di reggere la concorrenza di quelli che lavorano in nero.

Di storie analoghe oggi se ne leggono parecchie sui giornali. Ma con una piccola differenza: l’artigiano leghista clandestino viene regolarmente sostituito dall’immigrato, nordafricano se lavora nei campi, cinese se nell’industria, romeno in edilizia. Durante una lunga nottata in treno giuro di aver ascoltato un “artigiano” delle false griffe nei bassi napoletani scagliarsi, invocando legalità e repressione, contro i cinesi che stanno rilevando i laboratori partenopei e vi producono le stesse borse e cinture a prezzi ancora più bassi dei locali.

Insomma, la causa delle difficoltà economiche degli italiani, tutti a parole lavoratori indefessi e ligi a leggi e norme fiscali, sarebbe da ritrovare negli immigrati, generalmente clandestini e privi di senso civico, che creerebbero economia sommersa, così sottraendo lavoro e gettando sul lastrico imprese e lavoratori locali, costretti ad adeguarsi per sopravvivere.

Basterebbe richiamare il carattere endemico del sommerso nell’economia italiana per dimostrare quanto strumentale sia questa tesi. D’altra parte, il fatto che siano spesso i segmenti del mondo del lavoro e delle imprese che già operavano nell’illegalità a lamentarsi di più dell’aumentata competizione segnala un disagio sociale al quale la destra è finora riuscita a dare rappresentanza, indicando appunto nell’immigrato la causa dei problemi, mentre la sinistra balbetta spesso risposte di scarso momento, quando non, ahimè, scimmiottanti le tesi del campo avverso.

2. Eppure, gli elementi per un’analisi e per una politica meno prona al razzismo nostrano si moltiplicano. Da ultimo, la recente ricerca ISAE Effetti dell’immigrazione sulla finanza pubblica e privata in Italia, della quale si può trovare sintesi nel nuovo rapporto Politiche pubbliche e redistribuzione, presentato qualche giorno fa nella sede dell’Istituto a Roma. Si tratta di un lavoro che cerca da un lato di ricostruire su dati di bilancio i rapporti economici di dare e avere degli immigrati con l’amministrazione italiana; dall’altro di studiare sul campo l’utilizzo dei servizi sociali pubblici e dei servizi finanziari privati, attraverso un’indagine basata su interviste a 800 stranieri che vivono nella capitale.

Per quanto riguarda i rapporti fra immigrati e bilancio pubblico, i ricercatori ISAE confermano quanto già emerso da altre indagini (cfr. ad esempio il capitolo di Grazia Naletto nel Rapporto sullo stato sociale 2008 o i rapporti INPS 2008 e 2009 su Rapporti fra immigrati e previdenza): a oggi, il saldo del dare e dell’avere è largamente positivo per lo Stato italiano. Di fatto, i 3,5 milioni di stranieri regolarmente presenti in Italia nel 2008 pagano annualmente 4,6 miliardi di contributi previdenziali e ricevono pensioni per 1,8 miliardi (peraltro erogate in massima parte a cittadini italiani nati all’estero); quasi non godono di ammortizzatori sociali (400 milioni la spesa); essendo generalmente giovani e sani, incidono relativamente poco anche sul sistema sanitario (600 milioni per ricoveri ospedalieri, comprese le maternità), senza contare che l’Istat ha segnalato che, quando si ammalano, tendono a tornare al loro paese. Solo nell’ambito dell’istruzione si segnala una spesa di un qualche rilievo (2,4 miliardi annui), a fronte di una presenza di studenti stranieri in forte crescita (0,5 milioni, pari al 5,6% del totale). D’altra parte, se l’INPS ha evidenziato come i redditi degli immigrati siano bassi (5.000 euro annui i domestici, 11.500 i dipendenti, 13.000 gli autonomi), sia perché operano nei settori più deboli del mercato del lavoro che perché molti dichiarano il minimo possibile, vero è anche che, complessivamente, le entrate fiscale generate da cittadini stranieri sono di rilevante ammontare: 4,5 miliardi di euro, il che porta il totale delle entrate fiscali e contributive ad oltre 9 miliardi, assicurando al bilancio pubblico incassi ben superiori alle spese.

A fronte di un significativo contributo economico da parte degli immigrati, le interviste evidenziano invece un quadro di notevole precarietà di vita e scarsissima integrazione, tanto nei rapporti col pubblico che col sistema finanziario. La mediana dei redditi mensili dei nuclei familiari intervistati non raggiunge mille euro, quasi il 50% non vive né in casa di proprietà né in affitto, bensì presso altri nuclei familiari o presso il datore di lavoro, più del 50% vorrebbe tornare nel paese di origine. Si conferma che i servizi pubblici più utilizzati sono quelli scolastici, mentre un terzo degli intervistati non ha avuto contatti col sistema sanitario neanche a livello di scelta del medico di famiglia. Praticamente nessuno riceve trasferimenti pubblici, mentre solo il 10%-15% ha seguito corsi di lingue o si è rivolto ai servizi informativi degli enti locali. Solo poco più della metà degli stranieri intervistati ha rapporti col sistema bancario (incluse le Poste) e, anche quando bancarizzato, lo straniero fruisce solo dei servizi di base: l’utilizzo di carte bancomat o di credito è raro, anche all’interno della minoranza che ne possiede una, mentre pochi chiedono o ottengono finanziamenti, molto più diffuso essendo la richiesta di prestiti a parenti e amici. Il sistema bancario e postale non è utilizzato neanche per trasferire le rimesse alle famiglie nei paesi di origine, essendo preferiti altri strumenti di più facile accesso, anche se più costosi e rischiosi.

Complessivamente, se varie sono le tipologie di immigrati e delle loro famiglie, emerge però una presenza molto significativa di soggetti quasi del tutto esclusi, con rapporti con l’Amministrazione e col sistema creditizio nulli o ridotti al minimo (quanto serve ad assicurarsi il permesso di soggiorno, l’occasionale corso di italiano), verosimilmente poco coscienti dei propri diritti e dei servizi di cui potrebbero beneficiare. Da questo punto, la maternità e la scuola per i figli sono forse le uniche vere occasioni di contatto con una realtà istituzionale che altrimenti tende a respingere.

3. Se questa è la realtà che va emergendo, vale allora la pena di segnalare tre capisaldi di quella che potrebbe essere una politica di sinistra sul tema.

 


In primo luogo, la legalità, non dell’immigrato, quanto del lavoro e dell’impresa. Il fatto che l’impresa sommersa o il lavoratore in nero siano italiani o stranieri non è in alcun modo rilevante nel determinare la natura sleale della competizione cui sottopongono coloro che operano nella legalità. Da questo punto di vista, la lotta all’immigrazione clandestina andrebbe semplicemente e in toto sostituita dalla lotta al lavoro nero e all’economia sommersa. Tanto più che non ha senso combattere gli immigrati clandestini quando sono le stesse imprese e famiglie italiane a cercarli. Meglio allora rafforzare, anziché smantellare (come si sta facendo), i controlli fiscali e degli ispettori del lavoro, e chiedere alle imprese un impegno concreto. Invero, quando si parla, gli amici di Confindustria sono veementi nel rivendicare che le imprese sarebbero le prime ad essere penalizzate dal nero; ma, all’atto pratico, essi fanno poco, perché, con l’affermarsi dei meccanismi di subfornitura, anche le imprese di maggiori dimensioni hanno trovato il modo di approfittare delle riduzioni di costo originate dall’economia sommersa. Degli stessi benefici, peraltro, usufruiscono le stesse amministrazioni pubbliche, sia direttamente (riduzione del costo degli appalti pubblici, in totale assenza di controlli), sia indirettamente (possibilità di non erogare servizi pubblici costosi – si pensi alla non autosufficienza – delegandoli alle famiglie che assumono badanti per buona parte in nero).

In secondo luogo, preso atto che l’utilizzo da parte degli stranieri dei servizi sociali e del welfare italiano è ancora limitato, se non altro per motivi anagrafici e di scarsa integrazione, è opportuno chiedersi se, in quegli ambiti ove una qualche competizione fra italiani e stranieri va manifestandosi, non vada evidenziata più la drammatica insufficienza dell’offerta pubblica che la “voracità” della domanda straniera. Ciò è talmente evidente per quanto riguarda edilizia popolare e asili nido, ambiti nei quali siamo agli ultimi posti fra i cosiddetti paesi sviluppati, da non richiedere ulteriori commenti. Ma anche in un ambito nel quale l’offerta pubblica sembrava adeguata, quale quello dell’istruzione primaria, viene da chiedersi se i tagli introdotti dalla signora Gelmini non finiranno per fomentare una lotta fra i più e i meno poveri di cui proprio non vi sarebbe bisogno. Insomma, è forse il caso di prendere atto che è preferibile una strategia volta a garantire una adeguata offerta di servizi pubblici (su alcuni dei quali l’Italia si trova peraltro a disattendere precisi impegni assunti in sede europea) all’introdurre bonus per pelle chiara e sangue italiano nelle graduatorie.


Infine, dobbiamo essere coscienti che il modo con cui stiamo gestendo l’immigrazione non solo penalizza gli stessi immigrati, ma fa anche perdere all’Italia un’opportunità. E’ noto che a emigrare sono spesso i più intraprendenti e acculturati. Disporremmo dunque di risorse umane che, se valorizzate e integrate nel nostro sistema, potrebbero dare un fondamentale contributo alla vita economica e culturale del paese. Invece ci siamo fatti regola di vedere nell’immigrato solo lavoro bruto a basso costo, che, anche quando regolare, cerchiamo di taglieggiare in qualche modo, fra bolli, tasse di rinnovo del permesso di soggiorno e contributi pensionistici arretrati nelle regolarizzazioni, che cercheremo in tutti i modi di non restituire mai più, secondo una logica di rapina non dissimile da quella degli scafisti che portano i clandestini. Di fatto, con le dovute eccezioni, siamo un paese che non integra e dal quale molti degli stessi immigrati, soprattutto quelli che più potrebbero dare al paese, scappano, se appena possono, per raggiungere altri paesi, più che contenti di offrire, ai “migliori” e selezionati la prospettiva di una normale vita e integrazione nella società.

 

Kaldor per www.sbilanciamoci.info

 

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