Prove tecniche di una «rivoluzione culturale». Una provocazione che rompe però le mura delle università, coinvolge i luoghi della produzione e scalza dalla scena quella passione per l’ineguaglianza che domina la vita nelle società contemporanee.
Pagine che meritano di essere lette più volte per comprendere la portata della «rivoluzione culturale» proposta da Jacques Rancière, perché travalica i confini all’interno dei quali vorrebbe costringerla il suo autore. Nel saggio Il maestro ignorante (pp. 149, euro 16), che meritoriamente la casa editrice Mimesis ha mandato nelle librerie, il filosofo francese punta l’indice contro quella «passione per l’ineguaglianza» che domina la scena politica nei paesi capitalistici, offrendo al tempo stesso un cambiamento radicale di sceneggiatura dove i ruoli della divisione sociale del lavoro vengono semplicemente cancellati. La scena da cui parte Rancière è un’aula scolastica dove la figura del maestro perde l’aura del depositario del sapere e, cosa più importante, della potere unico di indicare la strada per accedervi. Un maestro che si ritiene custode unico della conoscenza serve a perpetuare la «passione dell’ineguaglianza» e dividere la società in sapienti e ignoranti, in meritevoli e «zavorre». E visto che nel capitalismo l’unità di misura dell’intelligenza è data dalla posizione occupata nella gerarchia sociale, l’insegnamento è parte integrante della divisione in classe della società.
Una tesi dove forti sono gli echi della critica alla scuola di classe del Sessantotto, ma abilmente Rancière parte da una esperienza maturata negli anni della sconfitta della Rivoluzione francese e della restaurazione per tendere il filo rosso dell’eguaglianza che lega la presa della Bastiglia, la nascita, l’eclissi politica del movimento operaio e la teorie radicali di inizio millennio. La triade di libertà, uguaglianza e fraternità che fanno da cornice alle discussione nei club repubblicani e nell’assemblea nazionale francese, nelle sedi operaie o nelle barricate del quartiere Latino hanno sempre avuto come sfondo l’accesso alla conoscenza, perché è attraverso la cultura che gli uomini e le donne possono trasformare gli ideali repubblicani o sull’eguaglianza in norme che regolano il processo di trasformazione della società.
Da Parigi a Lovanio
È questo primato dell’insegnamento nella formazione di una soggettività politica segnalato da Rancière che fornisce al pensiero critico elementi importanti nella contemporanea critica al «progressismo» di chi vuole educare il popolo alla libertà e al pensiero conservatore, che ritiene invece la diseguaglianza un fattore connaturato alla natura umana. Ma anche perché il testo del filosofo francese fornisce sofisticati attrezzi alla critica della produzione capitalistica del sapere e della conoscenza. In una realtà dove l’università funziona secondo una logica capitalistica, la condivisione del sapere e la cancellazione della distanza tra insegnanti e allievi sono certamente da considerare variazioni sul tema della critica alla mercificazione della cultura, ma anche il terreno della critica alla produzione di merci proprio per la centralità del sapere nella società del capitale.
Protagonista indiscusso del libro è Joseph Jacotot, repubblicano che la restaurazione ha costretto all’esilio nei Baesi bassi, dove salirà in cattedra nell’Università di Lovanio. Non sa la lingua e deve rapidamente apprenderla. Per farlo legge un libro in francese che ha però una traduzione a fronte nella lingua del paese ospite e prova ad applicare con gli studenti il metodo da lui usato per se stesso. È il primo passo per mettere a fuoco la figura del «maestro ignorante» che accetta la sfida di sovvertire la tradizionale gerarchia tra il sapiente e l’ignorante. Il maestro, per Jacotot, è inoltre colui che abolisce la distanza tra apprendere e comprendere. Ma in questa cancellazione della distanza bisogna procedere a tentoni, «osservando, ricordando, ripetendo, facendo e verificando e riflettendo» su ciò che fino ad allora si era fatto. Un metodo che il repubblicano sconfitto ma non rassegnato chiama «metodo del caso», dove non c’è bisogno di nessun maestro, solo una forte volontà e convinzione della uguaglianza di tutto gli uomini e donne. Il buon insegnante è dunque colui o colei che ha come obiettivo non tanto di trasmettere agli allievi ciò che essi ignorano, ma di fornire la chiave di accesso alla loro emancipazione, costringendoli cioè a usare al loro intelligenza, che è uguale in tutti gli umani, seppur diseguale nelle sue manifestazioni. Il buon maestro è chi interroga e verifica con attenzione la manifestazione dell’intelligenza, perché occorre ribaltare il motto cartesiano «penso, dunque sono» in: «io sono uomo e quindi io penso». Tutti quindi sono capaci di pensare. L’accesso al sapere e alla conoscenza è dunque un atto di emancipazione non perché c’è una figura istituzionale che la legittima, ma perché esprime una volontà di prendere la parola per affermare la propria libertà e la propria singolarità data dalla «diseguaglianza nelle manifestazioni» delle intelligenza uguale invece in tutti gli uomini e donne.
Pedagogia della liberazione
Il testo di Jacques Rancière è scritto nella seconda metà degli anni Ottanta, cioè nell’azimut della controrivoluzione neoliberale. È quindi segnato dalla necessità politica di fare fronte alla sconfitta dei movimenti sociali radicali e di innovare il pensiero critico. La scelta di proporre una sorta di «pedagogia della liberazione» è così il passaggio obbligato per gettare la basi di una rinnovata critica radicale dell’esistente. Il maestro ignorante ha però un duplice obiettivo, perché il Sessantotto non ha messo sotto accusa le gerarchie di classe del capitalismo, ma anche la pretesa del movimento operaio di educare all’eguaglianza. Il merito del libro non sta solo in questa «svelamento» della comune «passione dell’ineguaglianza» che accomuna «progressisti» e «conservatori», bensì nel fornire preziose indicazioni sul come affermare «l’eguaglianze delle intelligenze» in un capitalismo che ha fatto del sapere la materie prima della produzione. Il «metodo del caso», proprio perché parte dal presupposto che tutti possono pensare, è quindi un’arma politica per denunciare l’uso capitalistico della conoscenza e per rompere l’incantesimo che regola la vita negli attuali atelier della produzione.
Rancière infatti sostiene che se tutti possono pensare e apprendere, tutti possono anche organizzare la produzione senza la figura «parassitaria» dell’imprenditore. Allo stesso tempo nella fabbrica del sapere l’autoformazione è non solo esercizio di libertà, ma anche affermazione di un processo di condivisione del sapere. È infatti realistico affermare che tutte le esperienze che fanno a meno delle tradizionali gerarchie, facendo leva sulla cooperazione sociale, pongono politicamente la critica della «passione della diseguaglianza» e, al tempo stesso, la possibilità di un diverso modo di organizzare la produzione della ricchezza. A testimonianza di ciò vanno sicuramente citate la produzione «open source» o free del software, ma anche la libera circolazione della scienza. Ma solo se l’autoformazione e l’autorganizzazione non sono relegate a espediente per sottrarsi alla «fatica» dell’apprendere e alla sperimentazione di relazioni sociali basate sulla «eguaglianza delle intelligenze».
La sceneggiatura e il palcoscenico proposti da Rancière devono così includere, oltre le aule universitarie, tutti i luoghi dove c’è produzione di merci. Solo così Il maestro ignorante e il suo «metodo del caso» mantengono la loro forza politica, per lasciarsi alle spalle la dissimulazione dell’azione politica che il repubblicano Joseph Jacotot aveva costruito attorno alla sue esperienza di lettore di francese a Lovanio.
Di Benedetto Vecchi per Il manifesto