Donne, tanta violenza poco lavoro
Donne, tanta violenza poco lavoro

Donne sempre più “prime della classe”, ma l’immagine e il salario non ne riconoscono né i successi nè i sacrifici. (di Silvia Garambois)

Donne di nuovo in piazza: contro la violenza. Perché la violenza contro le donne non si ferma.
Donne, di nuovo, in assemblea: per il lavoro. Perché l’Italia in rosa si muove all’indietro, come un gambero: l’ultima indagine del Word Economic Forum sul “gender gap” l’ha retrocessa al 72° posto, terzultima in Europa. Gli “obiettivi di Lisbona” sull’occupazione femminile sembrano sempre più lontani: era stato fissato per il 2010 l’obiettivo di portare al lavoro il 60% delle donne, siamo al 47,2. Più della metà delle donne sono ufficialmente disoccupate. Anche se poi il “pil sommerso” del loro lavoro di casa, quello cosiddetto “di cura”, pesa nell’economia italiana 300 miliardi di euro, quasi un quarto del prodotto interno lordo.

La crisi si scarica sulle lavoratrici più che sui loro colleghi perché alle donne tocca il triste primato di avere la maggioranza dei rapporti di lavoro atipici: contratti a tempo determinato, quando va bene, contratti a progetto, lavoro somministrato, collaborazioni, fino ai pagamenti con i “vaucher”, che solo in Italia su tutta Europa vengono considerati veri e propri stipendi, mentre altrove vengono considerati sostegno al reddito. Comunque tutti rapporti che iniziano e finiscono senza clamori. 

Oltre al danno, la beffa: perché in questo modo quando arrivano i dati ufficiali sulla disoccupazione le donne che hanno perso il lavoro per la crisi risultano percentualmente meno dei maschi.

Eppure tutte le ricerche dicono che le donne sono tanto brave: hanno un titolo di studio (basta andare a controllare ai Centri per l’impiego: le laureate e le diplomate in attesa di occupazione sono due, tre volte tanto rispetto agli uomini), sono efficienti, in grado di svolgere più lavori (e allora ecco il part-time, per assicurare le cure per la casa, la famiglia, i figli, gli anziani). Vere prime della classe.

E mentre in televisione sfilano le veline, e l’immagine della donna che si vuol proporre è di nuovo un bel guscio vuoto (lo spot televisivo per annunciare il quiz-show di Enrico Papi “Prendere o lasciare” è tutto un programma: con la valletta bellissima, mezza nuda, diplomata ma scema, e messa alla berlina) le lavoratrici fanno i conti nel borsellino, per scoprire che guadagnano sempre meno dei loro compagni, facendo gli stessi lavori. In due regioni, nel Lazio e in Toscana, le Consigliere di Parità hanno voluto vederci chiaro e sono andate a far di conto nelle aziende. I dati sono sconfortanti: si arriva al “record” della provincia di Viterbo dove le operaie guadagnano il 65% in meno degli operai, con lo stipendio falcidiato dal part-time (spesso coatto) e da collocazioni inferiori. O a Frosinone, dove le donne dirigenti percepiscono il 48% in meno dei colleghi maschi. Non è così ovunque, ma ovunque la penalizzazione del lavoro femminile è nei numeri: stesse mansioni, collocazioni diverse, precariato, stipendi (legalmente) “tagliati”. 

E il governo mentre fa roboanti annunci a favore del “Fattore D”, e assicura monitoraggi contro le discriminazioni, continua intanto l’attacco ai diritti del lavoro, indebolendo sempre più chi è meno tutelato e quindi, soprattutto, le donne.

 

di Silvia Garambois

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