Giorgio Beretta, caporedattore di Unimondo, presenta in un’intervista un’anticipazione della sua ricerca sulle operazioni d’appoggio all’export di armamenti italiani svolte dalle banche nell’ultimo decennio (Riproduzione autorizzata).
Tre sono i dati più significativi. Il primo è che le esportazioni di armamenti dell’Unione Europea – e in particolare quelle italiani – non sono affatto marginali ma hanno ormai assunto un ruolo di primissimo piano nel contesto internazionale. I dati del SIPRI – l’autorevole istituto di ricerca svedese – mostrano che nell’ultimo quinquennio il volume di esportazioni di sistemi militari dei paesi dell’Unione europea ha ormai superato quella di Stati Uniti e Russia. Per quanto riguarda l’Italia, il recentissimo rapporto dell’UE sui trasferimenti internazionali di armamenti dei paesi membri mostra che, dopo la Francia, l’Italia ormai affianca la Germania e supera di gran lunga la Gran Bretagna in questo particolare commercio (si veda in proposito il dossier di "Missione Oggi" – in .pdf).
E’ il fatto – poco conosciuto o meglio sarebbe dire spesso volutamente sottaciuto da governi e informazione ufficiale – che nell’ultimo decennio le esportazioni di armi italiane sono state prevalentemente dirette a Paesi del Sud del mondo. E questo nonostante una legge, giudicata “restrittiva” dall’industria militare nazionale, come la 185/90 imponga il divieto di vendita di armi a paesi sotto embargo, responsabili di gravi violazioni di diritti umani e in conflitto interno o esterno. Prendiamo ad esempio i due principali destinatari di armi italiane degli ultimi anni: si tratta del Pakistan a cui è stato autorizzato tre anni fa l’acquisto dalla MBDA italiana di missili terra-aria, un affare da 415 milioni di euro, proprio nel bel mezzo di uno stato d’emergenza. E nel 2008 è stato dato il via libera alla maxi-commessa del ministero della Difesa turco di elicotteri militari dell’Agusta per oltre un miliardo di euro anche in questo caso proprio nel bel mezzo dell’intervento militare turco nel Kurdistan iracheno e nonostante le proteste delle associazioni pacifiste preoccupate anche per le reiterate violazioni dei diritti umani dei governo di Ankara.
E in tutto questo qual è stato il ruolo delle banche?
Direi che si sono trovate strette in una duplice morsa. La prima – che ha fatto leva anche su una maggior attenzione dei consumatori – è rappresentata dalle campagne sociali per una maggior responsabilità sociale delle banche: mi riferisco in particolar modo alla Campagna di pressione alle "banche armate" che dal 2000 ha posto all’attenzione dei cittadini e degli istituti di credito proprio il tema specifico dei servizi forniti dalle banche all’industria militare per l’esportazione di armamenti. La seconda, molto meno trasparente e per diversi aspetti di tipico stampo lobbistico, è quella delle industrie militari – e in particolare dalle aziende che fanno capo a Finmeccanica – che non hanno mancato di esercitare le loro pressioni sugli Istituti di credito.
A quanto scritto – nero su bianco – nell’ultima Relazione d’Esercizio (in .pdf) dell’AIAD, la potente Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza che non ha avuto remore a stigmatizzare come “atteggiamento demagogico” la decisione delle banche di autoregolamentare la propria attività nel settore. Il testo va letto per intero perché mostra con chiarezza come agisce una lobby. Riporta infatti la Relazione dell’AIAD che nel 2008 “A tenere viva l’attenzione dell’Associazione è stato anche il problema delle Banche etiche che, professandosi “non armate”, hanno sospeso ogni transazione di esportazione, se pur già disciplinata nel rispetto della Legge 185/90. In maniera ricorrente l’AIAD ha rappresentato la propria preoccupazione per l’amplificarsi delle conseguenze derivanti alle imprese ed al riguardo sono state inoltrate sia a Confindustria che all’ABI diverse comunicazioni alle quali hanno fatto seguito molteplici incontri sia con i vertici dell’ABI che dei diversi Gruppi Bancari nonché con il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi; numerosi anche gli interventi nell’ambito di Seminari e Convegni per porre in evidenza l’atteggiamento fondamentalmente demagogico proprio degli Istituti Bancari”.
Le banche non avranno mancato di rispondere a queste, come chiamarle, "provocazioni"?
Purtroppo no e questo mi stupisce. A fronte di una dichiarazione evidentemente provocatoria come quella dei vertici dell’AIAD ci si sarebbe aspettati che l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) in testa e le singole banche che in questi anni si sono dotate di codici di responsabilità per quanto riguarda il finanziamento e i servizi all’esportazione militare rivendicassero formalmente e con forza la propria indipendenza e l’autonomia delle proprie posizioni. Invece – ed è questo che mi preoccupa – non si è alzata alcuna voce, segno che le pressioni dell’industria militare sugli istituti di credito sono riuscite a mettere a tacere anche quei settori all’interno delle banche che hanno come compito quello di definire e promuovere la "responsabilità sociale d’impresa" della banca.
Tornando alla tua ricerca, quali sono i dati salienti?
La mia analisi mostra tre elementi rilevanti. Il primo è un dato quantitativo: nel periodo dal 2001 al 2008 più del 60% delle operazioni di incassi per esportazioni di armamenti italiani sono state ripartite in maniera abbastanza uniforme da tre gruppi bancari: il gruppo BNL-BNP Paribas che ha assunto operazioni per oltre 2,3 miliardi di euro (cioè il 21,2% del totale), il gruppo IntesaSanpaolo – che considerando anche le operazioni dell’acquisita Carispe – ne ha svolte per quasi 2,2 miliardi di euro (20,1%) e il gruppo Capitalia-Unicredito (oggi UniCredit) che – soprattutto per le operazioni autorizzate alla Banca di Roma – ne ha assunte per oltre 2 miliardi di euro, cioè il 18,7%. Va però rilevato che mentre la BNL e il BNP Paribas – che ormai sono uno stesso gruppo – mostrano negli ultimi anni valori in forte crescita, i gruppi IntesaSanpaolo e Unicredit presentano invece un chiaro ridimensionamento della loro operatività del settore.
Merito quindi delle nuove e recenti direttive delle due banche?
Non proprio. E questo è il secondo elemento e mi spiego. Mentre il gruppo Intesa San Paolo già dal 2007 ha definito una policy che decreta “la sospensione della partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma, pur consentite dalla legge 185/90” e puntualmente ha pubblicato nel proprio Bilancio Sociale i dati aggregati delle operazioni assunte riguardanti l’esportazione di armamenti, non altrettanto si può dire per il gruppo Unicredit.
Dopo l’annuncio già nel dicembre del 2000 da parte di Unicredit di aver emanato direttive interne che disponevano – cito testualmente dal loro Bilancio sociale 2001 (pg. 78) – “la sospensione, con decorrenza immediata, di ogni facoltà delegata per interventi creditizi in favore di aziende che si occupano di produzione e commercializzazione di armi e prodotti connessi” – un annuncio che ci aveva positivamente sorpreso e a cui avevano dato ampio rilievo anche importanti trasmissioni televisive come Report della Gabanelli – la banca Unicredit pur continuando a ribadire pubblicamente la propria posizione non ha mai riportato nel proprio bilancio sociale alcuna operazione relativa all’export di armi anche se ha continuato a svolgerle. E questo nonostante la loro “Carta di Integrità” li impegni a “mantenere la trasparenza nei confronti dei clienti garantendo sempre la tempestiva informazione sui prodotti e sui servizi offerti”.
Rilievi non proprio confortanti per il principale istituto di credito italiano…
A cui ne va aggiunto un altro ancor più preoccupante. Senza darne troppa pubblicità già dal 2007 il gruppo Unicredit ha modificato la propria policy reintroducendo la possibilità di finanziare determinati settori dell’industria militare e non escludendo la fornitura di servizi bancari alle esportazioni di armamenti. Di fatto – come annuncia l’ultimo bilancio sociale – UniCredit sta rivedendo per la terza volta la propria politica in tema di difesa e armamenti e lo avrebbe fatto in dialogo con “un gruppo internazionale di ONG” di cui però non menziona il nome, forse per non lederne la riservatezza.
La BNL ha emanato ormai dal 2003 un "Codice Etico" (in .pdf) che sostanzialmente limita le operazioni d’appoggio all’esportazione di materiali militari ai soli paesi della NATO e dell’Unione europea. Ma proprio la controversa autorizzazione all’incasso dei 55 elicotteri militari venduti dalla Augusta alla Turchia per un valore di oltre 1 miliardo di euro fa capire che anche la limitazione dell’operatività a paesi considerati alleati espone le banche a non poche critiche soprattutto quando certe forniture militari si prestano ad un chiaro impiego di tipo repressivo. E come UniCredit, la BNL non brilla certo per trasparenza. Nonostante l’ampia operatività nel settore nei suoi bilanci sociali non ha mai fornito una sola cifra, ma solo percentuali e talvolta con giochi di parole poco edificanti.
Prendi ad esempio l’ultimo Bilancio Sociale. La BNL a pg. 31 afferma che "Avendo come riferimento il market share del 18,2% registrato nel 2002 (anno precedente alla emissione del Codice Etico BNL in materia), mentre nel 2007 si era registrato un significativo ridimensionamento della presenza della Banca in tale mercato con una diminuzione al 5,21%, nel 2008 – esclusivamente a seguito di un operazione di ampia portata con un primario Gruppo nazionale verso un Paese NATO, rientrante dunque nei canoni del Codice Etico BNL – la quota percentuale e salita al 33,87%". E segue questa affermazione che è di una logica disarmante: "Senza questa operazione la quota BNL sarebbe pari al 6,21%, sostanzialmente in linea con i valori espressi negli anni passati". Che è come dire: "Se non peccassi, sarei un santo"…
Insomma uno scenario non proprio incoraggiante…
Direi di più. Reso ancor più fosco e preoccupante dal fatto che da due anni la Presidenza del Consiglio ha deciso di non pubblicare la sezione della Relazione annuale (richiesta dalla Legge 185/90) che riportava le singole operazioni autorizzate e svolte dagli Istituti di credito, sottraendo cosi la possibilità di verifica dell’attività delle banche. Un fatto ripetutamente denunciato dalla Campagna di pressione alle “banche armate” anche con lettere ufficiali indirizzate alla Presidenza del Consiglio e ai Ministeri competenti, che però non hanno mai avuto risposta. E, nonostante l’informazione ufficiale della Relazione sia vitale anche per gli istituti di credito per certificare l’effettiva attuazione delle loro direttive, non mi risulta che le banche abbiano inoltrato alcuna protesta per denunciare questa manipolazione.Insomma c’è davvero ancora molto da fare se le banche vogliono impegnarsi con coerenza e piena trasparenza in questo settore.
A quando la pubblicazione del volume di Os.C.Ar.?
Sarà pronto e fresco di stampa per la prossima fiera sociale "Terra Futura" che si terrà a Firenze dal 28 al 30 maggio.