A trent’anni dal 24 ottobre 1981
A trent’anni dal 24 ottobre 1981

L’enorme corteo del 24 ottobre di trent’anni fa segnò la nascita del nuovo pacifismo italiano. Riflessione di Luciana Castellina.

Chi si ricorda (o sa) della straordinaria, enorme, inattesa manifestazione per la pace del 24 ottobre di trent’anni fa a Roma? Quasi nessuno, salvo chi vi partecipò, temo; e mi dispiace perché quell’immenso corteo segnò la data di nascita del nuovo pacifismo italiano, in sintonia con quello emergente anche nel resto d’Europa e che rapidamente si incontrò con la vecchia iniziativa di Capitini.

 

Dopo i tempi dei drammatici appelli ai quattro grandi detentori della bomba atomica, negli anni ’50, quando milioni di persone si impegnarono a raccogliere firme accorate, non c’era stato più niente: il mondo acquietato dalla deterrenza, vale a dire reclutato all’illusione che – avendo ormai anche l’altra grande potenza, l’Urss, raggiunto una capacità di fuoco analoga a quella degli Stati Uniti – nessuna delle due avrebbe osato sparare.

 

E invece ecco che, all’alba degli anni ’80, una nuova escalation nel riarmo e l’installazione in Europa da parte di Washington dei missili pershing e cruise, cui Mosca rispondeva con i suoi SS20, ci aveva riprecipitato tutti nelle trincee di una temibile prima linea.

 

La manifestazione di Roma fu il segno della presa di coscienza delle nuove generazioni su come era fatto il mondo reale, fonte di una nuova ondata di politicizzazione dopo i terribili anni della parabola terrorista che aveva indotto i più a chiudersi dentro casa.

 

Fu proprio questa nuova mobilitazione, del resto, che contribuì in modo decisivo a mettere in crisi, e alla fine a sconfiggere, i conati di guerra armata che avevano devastato il lungo ’68 italiano, e questo in nome di un’altra cultura, un diverso modo di lottare, quello dialogico e non violento, un’arma ben più efficace della repressione poliziesca.

 

Perché proprio all’inizio degli anni ’80, visto che di missili già da tempo era stato coperto il globo? Intanto per la recrudescenza della guerra fredda, dopo che via via erano falliti o finiti nell’angolo di trattative senza sbocco tutti gli accordi di disarmo fra le due grandi potenze: adesso appariva chiaro che lo scenario stava cambiando e che la eventualità di passare dalla guerra fredda a quella calda si stava facendo concreta. La nuova strategia militare con il presidente Reagan, nel pieno di una controffensiva di destra che investiva tutto l’occidente, tendeva a superare la fragile soglia dell’equilibrio del terrore: l’ipotesi, ora, era quella di uno scontro ‘caldo’ che, grazie ai missili di media gittata, avrebbe potuto esser circoscritto al nostro continente, risparmiando, per il tempo necessario a distruggere il potenziale sovietico, il territorio americano che non avrebbe potuto esser raggiunto.

 

Dal nuovo scenario emergeva per la prima volta, oltre al timore della distruzione, un tema nuovo: quello dell’Europa, della sua autonomia, del suo ruolo in un mondo schiacciato fra i due colossi militari. L’Europa, allora, interessava pochi addetti ai lavori, assai poco la generalità della gente. E infatti i più la chiamavano ancora MEC, mercato comune. Invano partiti e istituzioni avevano cercato di farla diventare tema di interesse popolare: a creare per la prima volta una coscienza europeista e a suscitare il primo movimento che coinvolgeva l’opinione pubblica di ogni paese europeo fu proprio il pacifismo degli anni ’80 che, non a caso, assunse come proprio slogan "per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali".

 

Un’indicazione che sottolineava la necessità di non essere soltanto pedina degli Usa e dell’Urss, ma di giocare un ruolo attivo nella riorganizzazione di un mondo libero dai blocchi.

 

Un’ipotesi all’epoca azzardata, e infatti a lanciarla fu un movimento in cui converse una larga parte di giovani, molti della nuova sinistra (in particolare dell’area Pdup), della FGCI, delle organizzazioni cattoliche, e che però, almeno inizialmente, si trovò un po’ in polemica non solo con i partiti pro-Nato, ma  con lo stesso, più diplomatico PCI che però poco dopo abbracciò l’obiettivo di «passi significativi di disarmo anche unilaterale»  (queste furono le parole di Berlinguer), accogliendo la sostanza del messaggio.

 

C’è chi dice che quel movimento fu inutile, perché a porre fine al pericoloso equilibrio fra le due grandi potenze fu il crollo di una delle due, prodotto della pressione militare esercitata dalla Nato. Non è vero che fu inutile.

 

È dai tempi di quel movimento che il ripudio della guerra è diventato un connotato di massa. Per il resto, è vero che la nostra ipotesi non si è realizzata, ma c’è da chiedersi se il processo di democratizzazione dell’est europeo, anziché esser il frutto della minaccia militare, fosse stato – come chiedevamo – lo sbocco di un dialogo e di un accordo di disarmo (come del resto Gorbachev aveva sollecitato e come auspicavamo in accordo con i dissidenti pacifsti dell’est) non avrebbe potuto essere più rapido e profondo, così risparmiando la devastante fase di restaurazione di un capitalismo selvaggio da cui molti non si sono ancora riavuti.

 

Luciana Castellina

 

Arcireport 37-2011

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